PONTE DI ANNIBALE
Il "Ponte di Annibale", realizzato in epoca romana sul torrente Titerno, fu distrutto e poi ricostruito nel XVII secolo.
Questo territorio sannita fu luogo di decisive battaglie durante la II e la III guerra punica; e, secondo alcuni storici, anche di battaglie di Fabio Massimo e Decio Mure contro i Sanniti e luogo di schermaglie tra Fabio Massimo ed Annibale, che attraversarono il Titerno sul ponte tutt'ora esistente. Da qui il nome di "Ponte di Anniba1e". Si può ritenere molto probabile che il generale cartaginese Annone, fratello di Annibale, da lui inviato in soccorso di Capua assediata dai consoli romani Appio Claudio e Flacco, sia venuto fino alla nostra Cominium, dove certamente sopravviveva un forte spirito antiromano, per reperire il frumento e le vettovaglie che i Capuani richiedevano.
Il nostro è un agile ponte ad arcata unica, a tutto sesto e pilastri realizzati in opera poligonale Valica il Titerno con un tracciato pedonale di larghezza m 1.40 e muretti di protezione di cm.25; la struttura è realizzata con elementi in pietra; l'arcata del ponte ha una luce di circa mt.9.15.
Dalle tante pubblicazioni storiche sul Sannio è possibile risalire all'epoca di costruzione del ponte stesso, che si presuppone abbia due fasi costruttive: la prima coincidente con le conquiste del territorio Sannita da parte di Annibale (216-217 A.C.),la seconda con la ricostruzione avutasi alla fine del 1600, in seguito agli eventi sismici che distrussero buona parte della cittadina cerretese.

MORGIA SANT'ANGELO detta "LA LEONESSA"
Ai limiti delle contrade "Cerro" e "Cese" si erge maestosa, superba e solitaria la "Morgia Sant'Angelo", detta anche la "Leonessa", per la stranissima somiglianza al feroce felino.
La "morgia" è impropriamente chiamata cosi, perché non è costituita da un unico strato di calcare, ma da diversi e potenti banchi di sedimenti miocenici e domina non soltanto le contrade su riferite, ma un esteso e vario orizzonte.
In fondo abbiamo il solitario monte Acero, a destra monte Erbano , mentre a sinistra si scorge il Massiccio del Taburno, alle spalle monte Coppo, la Defensa di San Lupo, i confini di Pontelandolfo e di Guardia Sanframondi.
La Leonessa volge le spalle a monte Coppo e guarda con cipiglio minaccioso le ripide e paurose "Ripe del Corvo" che, delimitando a destra la contrada Cerro, proseguono quasi in linea retta, in contrada Cese. Le Ripe costituiscono una enorme e lunga muraglia, dalle pareti rocciose, solcate da erti e profondi canaloni, stranamente conformati dalla furia delle acque e terribilmente tormentate dall'azione del gelo e del disgelo. La Leonessa, distaccatasi dalle Ripe del Corvo, ha probabilmente subito un processo di slittamento sui terreni marnosi e argillosi circostanti su cui poggiano i potenti strati calcarei miocenici (25-15 milioni di anni fa).
L'osservatore, al cospetto della Leonessa, non può celare quel senso di meraviglia che suscitano la grandiosità e la impressionante rassomiglianza di questa Morgia con il carnivoro omonimo. La posizione e l'atteggiamento del felino di pietra poggiato sulle zampe posteriori, la levigatezza degli strati che ne formano e ne modellano con tanta fedeltà il fianco, l'ampiezza della gola ed ancora una profonda incisione al di sopra di questa, che contribuisce a dare la strana sensazione di vedere la bocca ed il muso, accrescono maggiormente la bellezza e l'incanto dello spettacolo.
Inoltre, quasi naturae iocus, un alberello di quercia cresciuto a circa metà altezza della faccia e, spesso, mosso dal vento, imita a perfezione il movimento delle ciglia dell'enorme, ma inerme e freddo felino.
Il complesso calcareo componente tutta la Morgia Sant'Angelo alla base ha preso la forma di una grande ellisse, poco eccentrica, sulla quale si ergono, come su di un enorme piedistallo, gli strati rocciosi che hanno formato la bella Leonessa.
Le dimensioni della Leonessa sono le seguenti:
Lunghezza del fianco m 35
Lunghezza della faccia m 17
Lunghezza della testa m 18
Lunghezza della gola in giù m 17
Altezza totale della Leonessa m 35
Larghezza della schiena m 12
Circonferenza totale m 97
Gli strati che compongono la Morgia non sono interi, bensì fortemente fratturati in vari punti .Una vasta frattura in senso orizzontale, divide la Morgia per tutta la sua lunghezza in due grandi blocchi. Quello superiore raffigura la testa, il collo e il dorso, mentre, l'inferiore riproduce il restante corpo della Leonessa. Il primo presenta ancora una lunga e profonda fessura che partendo in direzione quasi degli occhi, prosegue quasi obliquamente interessando pure il secondo strato sino alla parte opposta e antero-posteriore di quest'ultimo e delimita, in tale modo, a destra il lato della "tettoia" .
Ad 1/3 circa della lunghezza di esso, a sinistra, guardando la Morgia, si apre una bella grotta, la grotta Sant'Angelo.
La conformazione della gola e della parte anteriore dell'enorme felino, certamente, sono dovute alla caduta di un grosso macigno del volume di diversi decine di metri cubi, visibile ai piedi della Leonessa. Se potessimo avvicinarlo al rimanente, esso si adatterebbe a meraviglia e non lascerebbe vedere più quel gran vuoto che imita a perfeziona il feroce animale.
Gli agenti atmosferici con la loro azione fisica, chimica, meccanica hanno notevolmente modificato e plasmato in vario modo la primitiva morfologia di questi sedimenti che, milioni di anni fa si adagiarono sul fondo di un mare calmo, caldo e poco profondo.
Tali azioni di erosione, di corrosione, di scultura distruttiva e costruttiva ad un tempo, non hanno fatto altro che creare queste bellezze ora selvagge, ora delicate.

LA GROTTA DI SANT'ANGELO
La Grotta Sant'Angelo fu indiscutibilmente dimora dello uomo neolitico come dimostrano gli scavi fatti ivi eseguire nel 1896, da Abele De Blasio. Alla profondità di circa un metro, fra una terra brunastra, ricca di carbone, cenere e resti organici, furono rinvenuti cocci di stoviglie fatte con creta lavorata a mano e scarsamente cotta, una punta di lancia silicea, lunga mm. 80, con la base larga mm. 18, di color bianco con splendore litoideo, leggermante translucida ai margini, di forma triangolare, un nucleo, un raschiatoio di selce biancastra. Furono raccolti frammenti di ossa di Bos taurus, di Ovis aries, di Sus scrofa. Se si tiene conto dei manufatti litici trovati nel tenimento di Guardia ed in quello dei paesi circonvicini dobbiamo arguire che i nostri prischi antenati: erano dei veri artisti nel lavoro della pietra. Basti, a tal proposito, ricordare la testa della lancia di Telese, oggi conservata nel Museo Geologico dell'Università di Napoli e che, al dire del Pigorini, rappresenta di quanto più bello ci possa offrire la arte neolitica nella lavorazione della silice. Vere fabbriche di armi in pietra furono trovate dal De Blasio a Pontelandolfo e a Morcone. Qui vi era finanche uno specialista che lavorava soltanto lame di coltelli. I neolitici lavoravano bene anche la creta e foggiavano vasi ed utensili per tutti i bisogni della vita, consistenti in ciotole, pignatte, scodelle. Alcuni di questi manufatti fittili trovati in quel di Guardia hanno la forma di doppi corni uniti per la base, altri sono cilindrici ed in questi la base è piatta o è conica. In molti di essi si scorge l'impronta delle dita di chi li lavorò. In quell'epoca il tornio non era stato ancora inventato e ciò si argomenta benissimo della disuguaglianza delle forme di essi. I vasi portavano manici di varia forma e cioè a nastrino, a cordone, ad orecchietta e presentavano disegni a rilievo sotto la forma di mammelloni o di bottoni, o disegni a graffiti a forma di linee rette o linee spezzate o ondulate. Un forno di neolitici fu da Abele De Blasio scoperto nei pressi della predetta Pietra Sant'Angelo. Tale forno era scavato in un terreno di scoscendimento ed aveva la forma di un ferro di cavallo aperto dalla parte stretta, che era rivolta ad oriente. Lo spazio interno era foderato da quattro ordini di pietre rozze, le une sovrapposte alle altre le quali, di tanto in tanto, mostravano dei vacuoli. In quattro di questi esistevano ancora i vasi. Fra questi e le pareti della nicchietta notavasi uno spazio, pel quale la fiamma poteva liberamente circolare. La cottura di questi utensili, perchè il forno non aveva volta, era imperfetta, ed ecco perchè detti vasi mostravano la parte esposta alla fiamma arrossata e cotta, l'altra annerita e mal cotta. Nella predetta Grotta Sant'Angelo il De Blasio, oltre al materiale neolitico, trovò superbe asce di bronzo, monili vari, punte di lancia ed un codolo di lancia di ottima fattura. Nel 1882, nei pressi di tale grotta, un colono, preparando il terreno per la seminagione, smosse un cumulo di pietre, indi un lastrone di tufo grigio del luogo che serrava una cavità rettangolare fiancheggiata da altri lastroni dello stesso tufo. Trattavasi di un sepolcro dell'età del bronzo, in cui il De Blasio rinvenne una lancia di bronzo, pezzi di legno bruciato, frammenti di femore, dell'osso iliaco, dell'osso occipitale, pezzetti di radio ed ossa metacarpee. Tutti questi pezzetti di ossa, misti a terriccio ed a carboni, erano contenuti in un vaso cinerario posto in un angolo del tumulo, ove il cadavere, probabilmente di guerriero, venne cremato. E se si considera che nell'età del bronzo si distinguono due epoche, di cui nella prima i cadaveri si inumavano, nella seconda si incenerivano, a quest'ultima si devono riportare le ceneri di Pietra Sant'Angelo.

CHIESA DI "S.ANGELO"
All'interno dell' enorme monolito che distava un miglio dall'antica Cerreto e ne é memoria negli ATTI della visita di Monsignor Savino del 1.587, fu ricavata una Chiesa.
"Ecclesia S.ANGELI DE SAXO extra terram Cerreti, in monte constructa, a qua distat per unum milliare, fuit Ecclesìae Collegiatae S.Martini unita vigore Bullae Pauli II.L.an.1544 et in ea degit heremita et per Capitolum in festo S.Angeli missae celebrantur, in qua Ecclesia extat magna populi devotio in dicta solemni festivitate. In ea adest sepulcrum marmoreum Episcopi Blasii Caropipe". Questi infatti vi fu sepolto(1524) e la tomba con una epigraf e fu poi trasportata nel sacrario del Duomo di Cerreto (1784),quando Chiesa e tomba furono esposte a profanazioni d'ogni genere. I canonici di S. Martino continuarono a celebrarvi messe il giorno di S.Michele fino ai prin cipi del Settecento. Fu dissacrata il 30 aprile 1783 per ordine di monsignor Pascale "per le enormità che si commettono ivi".
Nel 1882, sotto una gran lastra di tufo, venne alla luce un sarcofago dalla forma rettangolare e dalle pareti formate con materiale tufaceo analogo al coperchio. Il rinvenimento fu fatto a breve distanza dalla Chiesa e in un angolo fu rinvenuto un vaso cinerario contenente: una lancia di bronzo, frammenti di ossa di un femore e delle mani, parte della spina dorsale e dell'osso iliaco; il tutto era misto a carboni ed a legno.

LA TINTA
L'allevamento delle pecore ed il relativo commercio della lana erano in origine le più diffuse attività degli antenati Cerretesi. Ogni anno nella Cerreto vecchia venivano lavorate decine e decine di tonnellate di lana di pecore nostrane, mentre nella nuova vennero introdotte anche lane importate. Determinante per Cerreto fu quell'autentica autostrada del passato chiamata, impropriamente, tratturo regio, che passa per le contrade Cerro e Cese e che fu una antichissima via pastorale tracciata dai Sanniti. Lungo il suo percorso si svolgeva, infatti, il fenomeno della transumanza delle greggi pugliesi verso i Monti del Sannio, del Molise e degli Abruzzi. Alla fine della primavera, verso Maggio, quando la temperatura in Puglia s'innalzava molto, le greggi venivano transumate verso i territori sopra citati con climi più miti. Era proprio all'andata in maggio e al ritorno in settembre che avveniva la tosatura della lana trattata poi nel territorio cerretese. Ciò determinò la realizzazione dei primi strumenti meccanici che insieme a rudimentali macchine idrauliche offrirono il loro aiuto ai lavoratori del settore aumentando il ritmo di produzione e consentendo ai lavoratori stessi di condurre una vita tranquilla e serena. Tale attività costituiva orgoglio e vanto di una produzione tessile in tutto il circondario. Era un vero e proprio ciclo lavorativo: dall'allevamento del bestiame, al commercio della lana, da questa alla confezione delle stoffe che venivano vendute ovunque, ma particolarmente nei mercati pugliesi. Oggi, di quell'industria ne rimangono visibili solo alcuni ruderi. Nella " vecchia" Cerreto, questa tintoria era situata un po' al di sopra del mulino, in prossimità della via che conduceva alla cittadina di "Cominium Ceritum". Con la caduta di Cerreto, la vecchia tinta continuò a funzionare lo stesso ma ne fu edificata una più grande ed ampia i cui ruderi sono da un lato la testimonianza della prosperità della nostra industria e dall'altro dell'incuria e dell'ignoranza degli uomini che, in pochi decenni, l'hanno devastata peggio dei pur frequenti terremoti abbattutisi in zona. Basti dire che la facciata prospiciente via S. Anna, solo pochi anni fa, fu abbattuta per allargare la strada. Dunque, l'allevamento del bestiame ed il conseguente commercio della lana costituirono, con la ceramica, la principale attività di Cerreto. Essa, insieme alla confezione dei panni- lana, fu il fulcro su cui si resse l'intera economia del paese fino alla fine del secolo XVII. Ma all'inizio del XVIII secolo cominciò un graduale e lento tramonto di tale attività che provocò alla fine il crollo dell'industria tessile. I motivi furono storici, naturali e tecnici e vanno inquadrati in un panorama che interessò tutto il commercio e l'economia dell'Italia Meridionale.
I panni lana realizzati a Cerreto, famosissimo quello impermeabilizzato (bardiglione), fornirono anche l'esercito borbonico. L'industria delle pecore era in origine la più diffusa e raggiunse tale grado di floridezza che i vasti possedimenti del paese lungo la catena dei monti che dividono il Sannio dal resto della Campania (la parata) non furono più sufficienti ai pascoli delle sue greggi. Basti pensare che riferimenti storici (1541) davano come normale per una famiglia possedere 6.000 pecore, mentre il numero complessivo delle stesse pare ammontasse a 200.000 quando i cerretesi presero parte alla bonifica delle paludi in terra d'Otranto. Al sommo della fortuna, però, un contagio decimò il bestiame, e il pascolo di terra d'Otranto, ormai superfluo, fu ceduto a Castellaneta L'arte della lana, connessa all'industria delle pecore, era praticata fin dai tempi dei Sanniti, che avevano appreso dai tarantini i metodi di tintura. A tale industria, poi, non attendeva solo la "gente minuta". "La moglie del dottore e del notaro, quella dell'artigiano e benestante, visita tutto dì più d'un telaro" Così narrava un anonimo poeta governatore del Paese, mentre in un processo del 1715,molti testimoni depongono che le parti in causa, notari e dottori, esercitavano altresì l'arte del lanificio e della fabbrica dei panni "in cui lucrar si soleva il 25%"E i panni di lana, al pari delle ceramiche, varcarono i confini dell'Italia. Re Carlo di Borbone volle che il suo esercito fosse vestito di panni nazionali, e Cerreto concorse alla fornitura. Prima del 1541 la "tinta" era tenuta dagli antichi feudatari in un loro vecchio edificio in condizioni rovinose. Qui, in una caldaia colma d'acqua e messa al fuoco venivano preparati i coloranti estratti da vegetali, come il "mallo" delle noci da cui si ottenevano le varie sfumature del marrone. In tale infuso veniva immerso il panno per sette ore, si rimescolava con un asse, poi lo si passava alla "cartoniera", che conteneva cartoni infuocati, stretti a forza di braccia sotto la "soppressa". Abbandonata, riattata, ricostruita nel 1713,la Tinta è un pò la storia stessa di Cerreto che tenta, attraverso la riscoperta e la valorizzazione dei suoi monumenti e del suo artigianato, di ritornare allo splendore di qualche tempo fa.

LA LOCALITÀ "CAMPO DEI FIORI"
La spiegazione più probabile di questo toponimo sembra essere quella più popolare, che cioè la chiesa cristiana, dedicata alla 'Deiparae virgini Mariae' (= alla Vergine Maria Madre di Dio), sia sorta sui ruderi di un tempio pagano dedicato alla dea Flora.
Ne è prova la presenza di colonne e capitelli corinzi romani, alcuni adibiti tuttora ad abbeveratoi, visibili davanti alla chiesa fino a qualche decina d'anni fa e poi "scomparsi", e, soprattutto, i grossi blocchi di pietra squadrati e scorniciati antistanti la Chiesa. Di recente, durante lavori di risanamento dall'umidità, sono stati effettuati degli scavi che hanno interessato la parte esterna della Chiesa. A circa m 1.50 sono stati trovati massi poligoni, sottostanti a quelli esterni, perfettamente cementati, a dimostrazione che il livello del terreno non è quello odierno e che la presenza dei massi esterni non è casuale ma, seppur rimossi, costituiscono esattamente il sito del vecchio tempio pagano. Numerosi altri massi sono stati ritrovati, in ordine sparso, nel terreno circostante l'opera. La Soprintendenza Archeologica di Salerno, che pure ha dichiarato di importante interesse archeologico "i resti dell'edificio templare di età romana esistenti nei pressi e al di sotto della Chiesa Madonna della Libera" (lettera dell'1/7/1980 prot. 6167/69 J), non è intervenuta nonostante le pressanti richieste del sottoscritto quale presidente della Pro Loco. In mancanza di fondi lo scavo è stato ricoperto, mentre i massi sparsi sono rimasti all'esterno a disposizione degli studiosi.
Ne sarebbe una conferma, infine, la legge di Teodosio che imponeva di installare una croce di ferro sulle rovine dei templi pagani.
Si avrebbe così una continuità di una tradizione religiosa, che è frequente notare anche in altre località.
Soprattutto se si accetta l'ipotesi che le pietre antistanti alla chiesa attuale facciano parte di un tempio sannitico: allora la popolazione sannitica, soggiogata e dispersa dai romani, avrebbe accettato, per influsso della vicina Telesia, il culto di questa divinità, protettrice della popolazione rurale e festeggiata a Roma con le spettacolari e popolari "Floralie".
La Chiesa
La sua costruzione risalirebbe per alcuni storici (Iannacchino, Rotondi, Mazzacane) alla peste del 1656, che imperversò in tutta Italia.
Per altri (Montono, Pescitelli, Pacelli, ...) si tratterebe di un magnifico e munifico ampliamento di una chiesa preesistente, fatto dall'Università.
Il Montorio (Montorio Serafino, Zodiaco di Maria , Padri Predicatori Napoli 1715) scriveva già agli inizi del 700:
"Era nulladimeno la Chiesa assai angusta, e vi si adorava una statua della Vergine scolpita in legno colorito, ed il suo titolo era Santa Maria della Libera. Durò questo culto fino all'anno 1656, quando dilatatosi per tutto il regno il male epidemico, attaccossi anche Cerreto. Intimoriti i Cerretani in vedere tanti portati al sepolcro in pochi giorni, come devotissimi di quell' antica Effigie, per averla più da vicino la portarono alla chiesa delle monache di S. Chiara, dove incessanti suppliche livossero a ciò che il Signore, mediante la intercessione della Santissima Madre, placando il suo sdegno, liberasse quel popolo dal pestifero male. Non furono vane le loro suppliche, perchè dopo alcune settimane cessò il contagio; onde quei cittadini memori di tanto beneficio e grati alla loro sovrana Benefattrice, le donarono tant'oro, argento, denaro ed animali che, cavandone la somma di settemila e più scudi, con essa demolita l'antica, edificarono la nuova chiesa, così magnifica e riguardevole, che degnamente dirsi unica in questi paesi. Vi sta destinato di continuo un Sacerdote, che con titolo di Cappellano vi celebra ogni festa la Santa Messa con l'assistenza di un Romito, che la custodisce. Il concorso è ammirabile in tutti i giorni dell'anno, vedendo quanto è liberale Maria della Libera nel liberarli da qualsivoglia travaglio, infermità, miseria.'
Dello stesso parere è il Pescitelli (Pescitelli Renato, Chiesa Telesina, Benevento 1977, p. 87-89 con le foto), che riferisce anche dei documenti notarili:
"...ma più che essere costruita ex novo in tale anno, dovette essere ampliata la cappellina che già esisteva. Tale tesi trova conforto in alcuni istrumenti notarili: quello del 1616 per Notar Giulio C. Cappella e quello del 1618 per Notar Giovanni T. De Blasiis, ed infine da un fascicolo della Curia Vescovile del 1636, che classifica la chiesa di Patronato del feudatario.
Il primo documento infatti, nel descrivere un appezzamento di terreno di Francesco Del Russo, lo dice sito 'in territorio dictae Terme in loco ubi dicitr allo slargo di Santa Maria de Campo de fiore'; dal secondo si rileva che il Rev. don Giovanni Tommaso Ciarlo, Arciprete di S. Martino, era beneficiano della "ven. eccl. s. Maria Campo di fiore de iure patronatus Domini Ducis Magdaloni". Per quest'ultima ragione l'Università potette, nel 1656, ampliarla; infatti, se fosse stata di patronato di un privato cittadino, non lo avrebbe potuto fare, a meno che la sua famiglia in tale epoca non fosse estinta."
Infine l'ambiente adibito a sagrestia presenta tuttora delle forme caratteristiche di una chiesa: sono visibili quattro capitelli con i relativi basamenti, incassati nel muro, la parte bassa di una costruzione rotonda (il vecchio campanile?), alcune decorazioni floreali (sec. XVI?) nel muro ad arco del piano superiore (ora soffitta). La data che si legge (1671) sul portale in pietra sagomata (cm. 240 per 460), all'interno di un timpano arricchito da una croce e da motivi floreali, potrebbe riferirsi al completamento dell'ampliamento. Alcuni anni dopo (1686) la chiesa risulta arricchita di due altari dedicati a Santa Maria "campo de fiore" e a San Nicola.
Cenni storici
In questa contrada doveva sorgere già al tempo delle guerre sannitiche una cittadina fortificata, come dimostrano le pietre poligonali (volgarmente attribuite al tempio romano dedicato alla dea Flora, ma che potrebbero essere anche di un tempio sannitico della dea Kerres, donde la Cerere romana) ed 'i molti sepolcreti all'uso sannitico" trovati nella zona (Iannacchino A.M., Storia di Telesia, Benevento 1900; Romanelli D., Antica Tipografia istorica del Regno di Napoli) e l'uso di costruire simili fortificazioni in luoghi adatti alla difesa (Gioia Conte Haller, Ricerche su alcuni centri fortificati in opera poligonale in area Campano-Sannitica, Napoli 1978) e alla vita degli abitanti (pastorizia soprattutto e agricoltura).
Inoltre sul monte Cigno sono state trovate varie monete romane, come pure sono osservabili nei muri della nuova Cerreto alcuni resti di epoca romana.